I plebei avevano ottenuto con ciò il passivo diritto di elezione al supremo ufficio e il codice civile; e non erano essi quelli che avevano interesse di rivoltarsi contro la nuova magistratura e di restaurare, con la forza delle armi, il governo consolare, schiettamente patrizio.
Questo scopo si dovette avere solo dal partito dei nobili; e se i decemviri patrizi-plebei hanno fatto il tentativo di mantenersi in carica al di là del termine fissato, furono certo i nobili che non avevano trascurato di far notare come anche alla plebe fossero stati diminuiti i diritti giurati, e fosse stato tolto il tribunato.
Se alla nobiltà riuscì di allontanare i decemviri, è pure facilmente concepibile che, dopo la caduta di essi, la plebe si mettesse nuovamente in armi, per garantire a se stessa, tanto i risultati della precedente rivoluzione del 260, come anche quelli di questo moto recente, e le leggi valerie-orazie del 305 = 449, non si possono comprendere che come compromesso in questo conflitto.
Il nuovo componimento riuscì, come era naturale, di pieno vantaggio ai plebei e ridusse in più angusti limiti il potere dei nobili. Il codice urbano, estorto alla nobiltà, le cui ultime due tavole furono pubblicate posteriormente, venne conservato nel rimaneggiamento dello stato, e i consoli furono costretti ad adeguarvisi. Le tribù perdettero con ciò, senza dubbio la giurisdizione nei processi capitali, ma in compenso fu decretato che, in avvenire, ogni magistrato, quindi anche il dittatore, all'atto della sua nomina, dovesse obbligarsi a concedere l'appello; colui che nominasse un magistrato senza farsi carico di questa prescrizione era condannato nel capo.
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Storia di Roma
2. Dall'abolizione dei re di Roma sino all'unione dell'Italia
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma 1938
pagine 376 |
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