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      Non contento di queste lontane aggressioni contro i possedimenti e le relazioni commerciali degli Etruschi nel mare d'oriente, Dionisio colpì la potenza toscana proprio nel cuore prendendo d'assalto e mandando a sacco il ricco scalo di Cere, la città di Pirgi (369 = 385), che da quel tempo più non si riebbe.
      Quando poi, morto Dionisio, le discordie intestine di Siracusa lasciarono più libero campo ai Cartaginesi, onde la flotta punica potè riprendere, e, salvo poche e brevi interruzioni, conservare la preponderanza nelle acque del Tirreno, gli Etruschi non si sentirono meno minacciati da questo aumentare delle forze africane, e in prova noi abbiamo che diciotto navi da guerra etrusche vennero in aiuto di Agatocle di Siracusa quand'egli nel 444 = 310 s'armava per muovere contro Cartagine.
      Gli Etruschi temevano probabilmente per la Corsica, che allora, a quanto pare, era tuttavia in loro possesso. Questo fatto prova lo scioglimento dell'antica federazione tosco-fenicia, la quale durava ancora ai tempi d'Aristotele (dal 370 al 342 = 384 al 412); ma con ciò non fu impedita la decadenza marittima etrusca.
      Questa rapida decadenza della potenza marittima degli Etruschi non si potrebbe spiegare, se non si sapesse, che appunto nell'epoca in cui i Greci della Sicilia li aggredirono per mare, essi erano travagliati da ogni parte, anche per terra, da durissime prove.
      Al tempo in cui vennero date le battaglie di Salamina, d'Imera e di Cuma, fu combattuta, secondo narrano gli annali romani, un'aspra guerra tra Roma e Veio, la quale durò parecchi anni (dal 271 al 280 = 483 al 474). Ai Romani toccarono gravi sconfitte, e rimase memorabile lo sterminio dei Fabi (277 = 477), i quali in seguito alle interne discordie dello stato si erano volontariamente esiliati dalla capitale e avevano assunto la difesa dei confini verso l'Etruria, dove sul ruscello Cremera tutti i Fabi atti alle armi furono uccisi.


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Storia di Roma
2. Dall'abolizione dei re di Roma sino all'unione dell'Italia
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma
1938 pagine 376

   





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