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      Ma l'orgoglio nazionale, smisurato tra i Macedoni, per cui il più meschino principotto del paese era preferito al più prode straniero, la dissennata avversione dell'esercito macedone per qualsiasi generale che non fosse loro compaesano, avversione che già aveva perduto il più gran capitano della scuola di Alessandro, Eumene da Cardia, minavano la signoria del principe epirota.
      Così Pirro, vedendo di non poter reggere la Macedonia senza far violenza ai sentimenti dei Macedoni, ed essendo troppo debole, o forse troppo generoso per regnare contro il desiderio del popolo, dopo sette mesi abbandonò il regno al suo mal governo nazionale, e tornò ai suoi fidi Epiroti (476 = 278).
      Ma l'uomo che aveva portato la corona di Alessandro, il cognato di Demetrio, il genero del Lagide e d'Agatocle da Siracusa, il valentissimo stratega, che scriveva libri e trattati scientifici sull'arte della guerra, non poteva certamente rassegnarsi a passare la vita a rivedere, a un dato tempo dell'anno, i conti del reale amministratore del bestiame, e tra i capi tribù de' suoi valorosi Epiroti che venivano a offrirgli i consueti tributi in buoi e in pecore, a rinnovargli sull'altare di Giove il giuramento di fedeltà e ripetere egli stesso la promessa di mantenere le leggi, e, per rinsaldar i patti, a banchettare poi tutta la notte con loro.
      Se per lui non v'era posto sul trono macedone, nemmeno poteva rimanere impotente nella sua patria; egli poteva essere il primo, e quindi non era possibile che si rassegnasse a rimaner secondo.


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Storia di Roma
2. Dall'abolizione dei re di Roma sino all'unione dell'Italia
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma
1938 pagine 376

   





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