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      Quando giunse il re, gli affari della lega non erano troppo bene avviati. Vero è che il console romano, allorchè invece della milizia tarentina si vide di fronte i soldati di Milone, smesso il pensiero di attaccare Taranto, si era ritirato nell'Apulia; ma, ad eccezione del territorio di Taranto, i Romani signoreggiavano in tutta l'Italia.
      La lega non aveva nell'Italia meridionale alcun esercito pronto contro di essa, e anche nell'alta Italia gli Etruschi, i soli che rimanessero ancora in armi, non avevano raccolto nell'ultima campagna altro che sconfitte (473 = 281). Gli alleati avevano dato al re, prima ancora ch'egli s'imbarcasse, il supremo comando di tutte le loro truppe, e dichiarato di poter porre in campo un esercito di 350.000 fanti e 20.000 cavalli; ma tra queste millanterie e i fatti correva una grandissima differenza.
      Il grande esercito, di cui si era dato il comando a Pirro, restava ancora da crearsi e per ora non si poteva fare assegnamento che sulle forze di Taranto. Il re ordinò l'arruolamento di un esercito italico di mercenari pagati coll'oro di Taranto e chiamò ad iscriversi tutti gli uomini della città atti alle armi. Ma i Tarentini non avevano inteso il trattato in quel modo. Essi credevano di aver comperata la vittoria col loro denaro, come si compera qualsiasi altra merce, e poichè invece il re voleva costringerli a guadagnarsela combattendo, riguardarono la cosa come una specie di lesione di contratto.
      E tanto si erano rallegrati, appena giunto Milone con i suoi, di vedersi liberi dalla molestia della vita militare, altrettanto parve loro duro dover di nuovo iscriversi nelle milizie di Pirro, sicchè si dovette perfino minacciare la pena capitale contro i renitenti.


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Storia di Roma
2. Dall'abolizione dei re di Roma sino all'unione dell'Italia
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma
1938 pagine 376

   





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