Pirro non fu mai vicino alla sua mèta come nell'estate del 478 = 276 quando si vedeva dinanzi Cartagine umiliata, la Sicilia raccolta sotto la sua signoria, Taranto, porta d'Italia, saldamente nelle sue mani, e quando la flotta da lui creata e che doveva legare insieme tutti i suoi possessi, assicurare i suoi acquisti e servirgli per altre imprese, stava ancorata nel porto di Siracusa pronta a salpare.
Il lato debole di tutti i disegni di Pirro era la sua difettosa politica interna. Egli reggeva la Sicilia come aveva veduto Tolomeo reggere l'Egitto; non rispettava le costituzioni dei comuni, nominava a suo talento i suoi fidi a governare le città, eleggeva, in luogo dei giurati del paese, i suoi cortigiani all'ufficio di giudici, pronunciava a suo arbitrio confische, esilii, pene capitali perfino contro coloro che avevano vivamente promosso la sua venuta in Sicilia, metteva presidii nelle città e dominava in Sicilia non come il capo della lega nazionale, ma come re.
Benchè, secondo le idee dell'oriente ellenico, egli possa essersi creduto un principe buono e savio - e forse lo era in fatto - i Greci sopportavano con tutta l'impazienza d'un popolo disabituato ad ogni disciplina, in una lunga agonia di libertà, questo trasferimento dell'autocrazia dei diadochi in Siracusa; nè andò molto che allo stolido popolo parve più sopportabile il giogo cartaginese che il nuovo governo militare.
Le più ragguardevoli città strinsero lega con i Cartaginesi e perfino coi Mamertini; un forte esercito cartaginese ricomparve nell'isola, e, aiutato ovunque dai Greci, fece rapidi progressi.
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Storia di Roma
2. Dall'abolizione dei re di Roma sino all'unione dell'Italia
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma 1938
pagine 376 |
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