Giacchè nel Lazio non mancavano i poeti. Vagabondi latini, o cantastorie (spatiatores, grassatores) andavano di città in città, di casa in casa, cantando lor frottole (saturae) e accompagnandole con balli figurati e suoni di flauto. Il solo metro, che allora si conoscesse, era il saturnio. Queste canzoni non avevano per argomento fatti o azioni determinate, nè pare che ammettessero il dialogo; e le possiamo immaginare somiglianti alle ballate o tarantelle che si odono ancora oggi per le bettole di Roma. Queste canzoni non tardarono a comparire sulle pubbliche scene, e ad esse dobbiamo il primo germe del teatro romano.
Ma i primordi della poesia scenica, umili in Roma come in ogni altro luogo, furono per di più, fin dal primo apparire, colpiti dalla pubblica riprovazione: cosa che merita d'essere notata. Già le dodici tavole si erano mostrate severe contro queste cantafere, e non solo avevano pronunciato gravi pene contro le canzoni magiche, ma anche contro le satiriche, che mettessero in ridicolo un contadino o venissero cantate innanzi al suo uscio, e vietavano persino i piagnistei delle prefiche nei funerali.
Ma più severa assai delle leggi così intolleranti contro i primi vagiti della poesia fu l'opinione pubblica, e la bigotta austerità dei Romani pronunciò una specie di scomunica morale contro un'arte reputata leggera e venale. Il mestiere di poeta - dice Catone - d'ordinario non era tenuto in pregio; se qualcuno lo esercitava, o come tale s'introduceva ne' banchetti, era considerato un ozioso vagabondo.
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Storia di Roma
2. Dall'abolizione dei re di Roma sino all'unione dell'Italia
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma 1938
pagine 376 |
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