Pare che ai re non venisse accordata un'influenza personale nello stato; essi, per lo più, apparivano come supremi giudici e come tali venivano chiamati suffeti (praetores). Maggiore era il potere del capitano.
Isocrate, di poco più antico d'Aristotele, dice che i Cartaginesi, in casa loro, si reggevano oligarchicamente, sul campo monarchicamente; e quindi non a torto gli scrittori romani riguardavano l'ufficio del generale presso i Cartaginesi come una dittatura, sebbene i geronti, che gli stavano ai fianchi, dovessero, se non dividere, almeno frenare il suo potere, e sebbene egli fosse tenuto a render conto delle sue azioni appena uscito d'ufficio, ciò che non era prescritto ai duci romani.
La durata del generalato non era fissata, e anche ciò prova come questa dignità fosse affatto diversa dalla potestà regale, in cui l'eletto non rimaneva più d'un anno, e che del resto, anche Aristotile esplicitamente distingue dal generalato; se non che presso i Cartaginesi era in uso conferire molte cariche nello stesso tempo ad un solo individuo; nè deve quindi meravigliare se vediamo lo stesso individuo figurare come duce e come pretore.
Ma sopra la gerusía e i supremi magistrati si trovava la corporazione dei cento e quattro, o meglio dei cento giudici, rocca e baluardo dell'oligarchia. Nella originaria costituzione cartaginese non si parlava di questa corporazione, ma come l'eforato spartano, nacque dall'opposizione aristocratica contro gli ordini monarchici.
La venalità delle cariche ed il piccolo numero dei membri componenti la suprema autorità minacciavano di conferire ad una famiglia cartaginese, che primeggiava su tutte le altre per ricchezza e per gloria militare, la famiglia di Magone, l'amministrazione pubblica in pace ed in guerra, e quella della giustizia.
| |
Storia di Roma
3. Dall'unione d'Italia fino alla sottomissione di Cartagine
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma 1938
pagine 371 |
|
|
Aristotele Cartaginesi Cartaginesi Aristotile Cartaginesi Magone
|