Roma non privava di alcuna autonomia nemmeno gli infimi comuni soggetti, e non imponeva a nessuno di essi un tributo fisso; Cartagine inviava dappertutto i suoi governatori e imponeva gravi tributi persino alle antiche città fenicie; quanto ai popoli soggiogati, essa li trattava come veri schiavi dello stato. Ond'è che nella confederazione cartaginese-africana non v'era un sol comune, ad eccezione di Utica, il quale non fosse persuaso di poter migliorare, colla caduta di Cartagine, tanto le proprie condizioni politiche quanto quelle morali; nella confederazione romano-italica, invece, non v'era comune che non avesse più da perdere che da guadagnare ribellandosi contro un governo il quale metteva ogni cura nel rispettare gli interessi materiali, e per lo meno non provocava mai sollevazioni con eccessive misure.
Se gli uomini di stato cartaginesi credevano di aver legato i sudditi fenici all'interesse di Cartagine con lo spettro continuo di un'insurrezione delle genti libiche, e di essersi assicurati il concorso di tutti i possidenti mercè quella valuta convenzionale cui accennammo, essi s'illudevano con un calcolo da mercanti che spesso non ha valore nelle cose politiche; e infatti l'esperienza provò che la simmachia romana, sebbene sembrasse più rilassata e meno saldamente connessa, tenne fermo contro Pirro come un muro di roccia, mentre invece la simmachia cartaginese andò a brani come una ragnatela appena un esercito nemico ebbe messo piede sul suolo africano.
Così avvenne in occasione dello sbarco di Agatocle e di Regolo, così anche nella guerra dei mercenari.
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Storia di Roma
3. Dall'unione d'Italia fino alla sottomissione di Cartagine
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma 1938
pagine 371 |
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