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      Ad ogni modo si poteva dire con tutta ragione che il tentativo di sorprendere Taranto non era nè più leale nè più disinteressato dell'impresa di Messana, e che l'un fatto non differiva dall'altro che per il successo.
      Cartagine si guardò bene dal venire ad un'aperta rottura. Gli ambasciatori ritornarono a Roma coll'assicurazione che l'ammiraglio cartaginese era stato disapprovato per l'accaduto di Taranto e dopo aver ottenuto le bugiarde proteste e gli spergiuri che avevano cercato. I Cartaginesi neppure risposero con alterigia, anzi perfino le recriminazioni, che naturalmente non potevano mancare, furono moderate, e non si parlò neppure della meditata invasione della Sicilia come d'un caso di guerra.
      E nondimeno il caso di guerra c'era: giacchè i Cartaginesi consideravano gli affari della Sicilia come i Romani quelli d'Italia, cioè questioni interne, in cui una potenza indipendente non può permettere ingerenze straniere.
      E Cartagine era ben risoluta a ciò; ma la politica fenicia procedeva cautamente e non metteva innanzi un'importuna sfida di guerra.
      Ma quando Roma aveva già quasi ultimato i preparativi, e l'esercito destinato a soccorrere i Mamertini era sulle mosse, e radunata la flotta composta di navi di Napoli, Taranto, Velia e Locri, quando già l'avanguardia romana, capitanata dal tribuno militare Gaio Claudio era comparsa a Reggio (primavera 490=264), giunse da Messana l'inaspettata novella, che i Cartaginesi, d'accordo col partito antiromano di quella città, avevano, come potenza neutrale, negoziato una pace tra Gerone ed i Mamertini, che quindi l'assedio era levato e nel porto di Messana aveva dato fondo una flotta cartaginese, e un presidio pure cartaginese era nel castello, l'una e l'altro sotto gli ordini dell'ammiraglio Annone.


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Storia di Roma
3. Dall'unione d'Italia fino alla sottomissione di Cartagine
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma
1938 pagine 371

   





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