Una seconda grande battaglia navale combattuta (497=257) al capo Tindaride, in cui entrambe le parti si attribuirono la vittoria, non cambiò in nulla lo stato delle cose. A questo modo non si progrediva di un passo, e non si capiva se la ragione dovesse essere attribuita alla divisione del comando delle truppe romane, soggetto a rapidi cambiamenti che rendevano difficilissima la concentrata direzione generale di una serie di piccole operazioni, o se dipendesse dalle condizioni strategiche di questa guerra che in simili casi, considerati gli ordini delle milizie e la natura delle armi, dovevano di necessità riuscire sfavorevoli all'assalitore e più specialmente ai Romani che si trovavano ancora ai principii d'una razionale arte militare. Ond'è, che quantunque i Cartaginesi non infestassero più il litorale italico taglieggiandone i paesi con la minaccia di metterli a ferro e a fuoco, i commerci non si erano ripresi e languivano quasi come prima della costruzione della flotta.
Stanco di codesto armeggiare senza frutto, e impaziente di mettere fine alla guerra, il senato decise di cambiare sistema e di assalire Cartagine in casa propria.
Nella primavera del 498=256 una flotta di 300 navi di linea drizzò la prora verso le coste libiche. Presso la foce del fiume Imera, sulle coste meridionali della Sicilia, furono imbarcate quattro legioni, comandate dai due consoli Marco Attilio Regolo e Lucio Manlio Volso, generali di sperimentato valore.
L'ammiraglio cartaginese lasciò che le truppe nemiche s'imbarcassero; ma filando verso l'Africa, i Romani all'altezza di Ecnomo trovarono la flotta cartaginese in ordine di battaglia pronta a tagliare loro il cammino.
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Storia di Roma
3. Dall'unione d'Italia fino alla sottomissione di Cartagine
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma 1938
pagine 371 |
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