I piani di guerra erano perciò appoggiati più sulla tattica che sulla strategia; le marce e le combinazioni strategiche tenevano il secondo posto, le battaglie il primo; la guerra di fortezza era ai suoi primordi; qualche rara volta appena, e per incidenza, si parlava del mare e di guerra navale.
È facile comprendere, specialmente se si ricordi come nelle battaglie di quei tempi, predominando l'arma bianca, l'urto a corpo a corpo e la virtù della mano fossero decisivi, che un'assemblea di consiglieri poteva essere in grado di dirigere queste operazioni e colui che era capo della cittadinanza riusciva atto a comandare l'esercito. A un tratto tutto mutò. Il campo della guerra si allargò a perdita di vista sino ad ignoti paesi d'altre parti del mondo e a mari lontani; d'ogni parte, da ogni punto del quadrante poteva balzar fuori il nemico, in ogni porto poteva prender terra.
I Romani furono obbligati per la prima volta a cimentarsi nell'assedio delle fortezze e principalmente di quelle poste sul mare, contro le quali i più famosi tattici della Grecia s'erano rotto il capo.
Ormai l'esercito e la milizia cittadina erano insufficienti. Si trattava di creare una flotta, e, ciò che era più difficile, di sapersene servire, si trattava di fissare i veri punti di attacco e di difesa, di saper unire e dirigere le masse, di saper calcolare il tempo e la distanza per le spedizioni e di combinare l'una cosa coll'altra, senza di che un nemico, anche di gran lunga inferiore nella tattica, poteva vincere facilmente un avversario più numeroso e più forte.
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Storia di Roma
3. Dall'unione d'Italia fino alla sottomissione di Cartagine
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma 1938
pagine 371 |
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Romani Grecia
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