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      Ma i pacifici figli di Sidone si sarebbero forse adattati anche a questo. Essi avevano già sperimentato simili colpi; erano stati costretti a dividere coi Massalioti, cogli Etruschi, coi Greci di Sicilia ciò che prima avevano posseduto esclusivamente; e quanto loro ancora rimaneva, cioè l'Africa, la Spagna e le porte dell'Atlantico, bastava a renderli possenti e a farli vivere nell'agiatezza. Ma chi poteva essere mallevadore che almeno questo sarebbe loro rimasto? Ciò che Regolo aveva chiesto - e poco mancò che non l'ottenesse - non poteva essere dimenticato. E se ora Roma avesse voluto rinnovare da Lilibeo il tentativo che aveva fatto con gran successo partendo dall'Italia, Cartagine era indubbiamente perduta, a meno che qualche grave errore del nemico od un caso straordinario di fortuna non fosse intervenuto.
      Ora, veramente, Cartagine era in pace; ma era dipeso da un filo che la ratifica del trattato venisse rifiutata, e ben si sapeva in qual modo questa pace fosse giudicata dalla pubblica opinione di Roma.
      Poteva essere che Roma non pensasse ancora alla conquista dell'Africa e che si accontentasse dell'Italia; se però l'esistenza dello stato cartaginese dipendeva da simile moderazione, i Cartaginesi non avevano di che andarne lieti.
      Chi avrebbe potuto garantire che i Romani, appunto per la loro politica italiana, non trovassero conveniente, non già di soggiogare, ma di distruggere il loro vicino africano?
      Cartagine insomma non doveva considerare la pace del 513=241 se non come un armistizio, e lo doveva utilizzare per prepararsi alla inevitabile ripresa della guerra, non per vendicare la sofferta sconfitta, e nemmeno per riconquistare il perduto, ma per procacciarsi colle armi una esistenza che non dipendesse dal beneplacito del suo nemico ereditario.


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Storia di Roma
3. Dall'unione d'Italia fino alla sottomissione di Cartagine
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma
1938 pagine 371

   





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