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      Da questa persuasione nacquero i due pensieri fondamentali che regolarono costantemente il modo di operare di Annibale in Italia: combattere cambiando continuamente il piano d'operazioni, nonchè il teatro della guerra, conducendo questa piuttosto come un avventuriero, e attendere il risultato non dai successi militari, ma dai politici, cioè dalla successiva dissoluzione e del finale scioglimento della federazione italica.
      Questo modo di fare la guerra era necessario, perchè la sola cosa che Annibale poteva opporre contro tanti svantaggi, cioè il suo genio militare, acquistava tutta la sua importanza soltanto se egli poteva sviare continuamente i suoi avversari col mezzo di impensate combinazioni; se la guerra sostava, egli era immediatamente perduto.
      Questo sistema gli era imposto dalla sana politica, perchè egli, il formidabile vincitore di battaglie, ben comprendeva che vinceva sempre i generali e non la città, e che dopo ogni nuova battaglia i Romani rimanevano superiori ai Cartaginesi come egli rimaneva superiore ai generali romani.
      Che Annibale non si sia fatto illusione su questo rapporto, nemmeno quando era al vertice della fortuna, desta maggior meraviglia di quello che possono destare le sue più famose battaglie.
      Per questo motivo, e non per le preghiere dei Galli di risparmiare il loro paese, alle quali Annibale non avrebbe dato ascolto, egli abbandonò allora la nuova base di operazioni trasportando il teatro della guerra nell'Italia propriamente detta.
      Prima di farlo ordinò che gli venissero presentati tutti i prigionieri.


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Storia di Roma
3. Dall'unione d'Italia fino alla sottomissione di Cartagine
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma
1938 pagine 371

   





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