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      Alla notizia di questi successi, la cui narrazione sarà stata naturalmente esagerata, fu generale in Roma l'irritazione contro Quinto Fabio. E non interamente a torto. Per assennata che fosse la massima che i Romani dovessero tenersi sulla difensiva, e attendere la vittoria finale dalla fame che avrebbe stremato il nemico, ciò non toglie che questo fosse un sistema di difesa ben singolare, poichè permetteva al nemico, sotto gli occhi d'un esercito romano pari in numero, di devastare impunemente tutta l'Italia centrale e, col mezzo d'un ben ordinato sistema di requisizione praticato su vastissima scala, di procacciarsi le provvigioni necessarie per tutto l'inverno.
      Publio Scipione, allorchè era stato comandante nella valle del Po, non aveva intesa la difensiva in questo modo, e il tentativo del suo successore di imitarlo era andato fallito presso Casilino, in modo da fornire abbondante materiale ai motteggiatori della città.
      Fu mirabil cosa che i comuni italiani non vacillassero allorchè Annibale fece loro così chiaramente conoscere la superiorità dei Cartaginesi e la fallacia del soccorso dei Romani; ma per quanto tempo si poteva attendere dai medesimi che dovessero tollerare un duplice peso di guerra, e lasciarsi spogliare al cospetto delle truppe romane e dei propri contingenti?
      Quanto all'esercito romano non si poteva dire che la sua condizione obbligasse il suo generale ad un simile modo di guerreggiare; esso si componeva bensì, in parte, di milizie chiamate recentemente sotto le armi, ma il nerbo era però composto dalle sperimentate legioni di Rimini, e, lungi dall'essere avvilito dalle ultime sconfitte, esso si sentiva irritato dal poco onorevole compito che il suo capitano «lacchè di Annibale» gli assegnava, e chiedeva ad alta voce di venir condotto contro il nemico.


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Storia di Roma
3. Dall'unione d'Italia fino alla sottomissione di Cartagine
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma
1938 pagine 371

   





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