Allorchè Varrone - il solo di tutti i generali che avevano comandato nella battaglia - ritornò a Roma ed i senatori romani andarono ad incontrarlo sino alla porta e lo ringraziarono perchè non avesse disperato della salvezza della patria, non erano queste nè frasi vuote per nascondere la miseria colle grandi parole, nè beffe amare fatte ad un meschino: era la pace conchiusa tra il governo ed i governati.
Dinanzi alla gravità del momento ed alla serietà di un simile appello ammutolì la ciancia dei demagoghi e d'allora in poi in Roma a null'altro si pensò che al modo di supplire alle gravissime necessità.
Quinto Fabio, il cui tenace coraggio in questo decisivo momento fu di maggior giovamento allo stato che non tutte le sue gesta militari, e gli altri senatori ragguardevoli precedevano in tutto col loro esempio e ridonavano ai cittadini la fiducia in sè e nell'avvenire.
Il senato conservò la propria fermezza e dignità benchè da tutte le parti accorressero a Roma messaggeri colle notizie delle perdute battaglie, della defezione dei federati, della cattura di distaccamenti di truppe e di magazzini e per chiedere rinforzi da spedirsi nella valle del Po ed in Sicilia, mentre l'Italia era abbandonata, e Roma stessa quasi senza presidio.
Fu vietato l'affollarsi della moltitudine alle porte della città: ai vagabondi ed alle donne fu imposto di tenersi in casa, il lutto per gli estinti venne limitato a trenta giorni, affinchè il servizio degli dei giocondi, dal quale erano esclusi coloro che vestivano a bruno, non venisse troppo lungamente interrotto, poichè era così grande il numero dei caduti che in quasi tutte le famiglie se ne sentivano i compianti.
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Storia di Roma
3. Dall'unione d'Italia fino alla sottomissione di Cartagine
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma 1938
pagine 371 |
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