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      16. Annibale alle porte di Roma. Contro ciò non v'era nulla da fare. Per salvare l'importante città egli ricorse ancora ad un espediente, l'ultimo che gli suggerisse la sua mente ricca di risorse.
      Avvertiti ch'ebbe i Campani del piano da lui meditato, e dopo averli esortati a non cedere, partì da Capua con l'esercito dirigendosi verso Roma. Colla stessa scaltra temerità, che era stato solito usare nelle sue prime campagne in Italia, egli si gettò colle scarse sue truppe fra gli eserciti nemici e le fortezze, e le condusse pel Sannio e sulla via Valeria per Tivoli al ponte sull'Aniene, passato il quale mise il campo ad una lega dalla città.
      I più tardi nipoti, in seguito, rabbrividivano in Roma dallo spavento quando loro si narrava di «Annibale alle porte di Roma» eppure non v'era stato grave pericolo. Le ville e le campagne vicine alla città furono devastate. Le due legioni di presidio nella città fecero una sortita ed impedirono che si desse l'assalto alle mura. Del resto Annibale non avrebbe mai pensato di prendere Roma con un colpo di mano, come non molto dopo fece Scipione con Cartagena, e meno ancora di stringerla d'assedio; egli sperava soltanto che al primo allarme una parte dell'esercito, che teneva assediata Capua si sarebbe immediatamente messo in marcia per Roma, ciò che gli avrebbe offerto il mezzo di liberare quella città. Perciò dopo breve sosta si rimise in marcia.
      I Romani considerarono la sua ritirata come un miracolo della divinità, la quale, con portenti e apparizioni, aveva costretto alla partenza l'uomo terribile, al che le legioni romane certamente non lo avrebbero potuto costringere.


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Storia di Roma
3. Dall'unione d'Italia fino alla sottomissione di Cartagine
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma
1938 pagine 371

   





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