Invano Annibale aveva cercato di espugnar Reggio e la rocca di Taranto per attenuare l'effetto che questa notizia doveva necessariamente produrre sugli alleati. La sua marcia forzata per sorprendere Reggio non gli era stata di nessun vantaggio; e nella rocca di Taranto è vero che scarseggiavano sensibilmente i viveri, poichè la squadra tarentino-cartaginese aveva bloccato il porto; ma siccome i Romani colla loro flotta, di gran lunga superiore, potevano alla loro volta sopprimere i convogli diretti alla squadra nemica, e il paese occupato da Annibale produceva appena quanto bastasse al suo esercito, ne avveniva che gli assedianti dalla parte del mare non soffrivano meno degli assediati della rocca, per cui essi abbandonarono finalmente il porto.
Ormai ogni impresa andava a male; pareva che la fortuna avesse abbandonato il Cartaginese. Queste conseguenze della caduta di Capua, la profonda scossa che aveva sofferto l'autorità e la fiducia di cui Annibale aveva fino allora goduto presso gli alleati italici, ed i tentativi che facevano tutti i comuni, che non si erano troppo compromessi, per essere riammessi a tollerabili condizioni nella simmachia romana, erano per Annibale fatti molto più sensibili di ciò che non fosse stato la perdita stessa di quella città.
Egli aveva da scegliere fra i due partiti: lasciare i presidii nelle città vacillanti, e con ciò avrebbe indebolito ancor più il già scarso suo esercito ed esposto le fidate sue truppe ad esser distrutte alla spicciolata o per tradimento (come lo furono i 500 cavalieri numidi l'anno 544=210 in occasione della diserzione della città di Salapia), o spianare queste città e appiccarvi il fuoco per non lasciarle al nemico, il quale espediente non avrebbe valso certamente ad elevarlo nell'opinione dei suoi clienti italici.
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Storia di Roma
3. Dall'unione d'Italia fino alla sottomissione di Cartagine
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma 1938
pagine 371 |
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