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      Il governo romano, che appunto allora era in procinto di ricominciare la pericolosa guerra col gran re d'Asia, seguiva questi avvenimenti naturalmente con qualche apprensione.
      Non era un pericolo immaginario quello che, mentre le legioni romane combattevano nell'Asia minore, la flotta cartaginese approdasse in Italia, e vi potesse insorgere una seconda guerra annibalica.
      Non si possono quindi biasimare i Romani se essi mandarono un'ambasciata a Cartagine (559=195) incaricata probabilmente di chiedere la consegna di Annibale.
      Gli oligarchi cartaginesi, che nel loro rancore spedivano lettere sopra lettere a Roma, denunziando al nemico della loro patria l'uomo che li aveva rovesciati dal potere, incolpandolo di segrete mene colle potenze avverse ai Romani, meritano tutto il disprezzo; ma le loro relazioni erano probabilmente giuste.
      Per quanto sia vero che in questa ambasciata si ravvisasse un'umiliante confessione della paura che teneva in agitazione il gran popolo di fronte al semplice Sufetes di Cartagine, per quanto tornasse ad onore dell'orgoglioso vincitore di Zama, la protesta da lui fatta al senato contro quel passo umiliante, questa confessione non era altro che la semplice verità. Annibale era un uomo così straordinario che soltanto i politici romani sentimentali lo potevano tollerare più lungamente alla testa dello stato cartaginese.
      Lo strano riconoscimento, che egli trovò nel governo nemico, non gli riuscì di sorpresa. Siccome era stato Annibale che aveva fatta l'ultima guerra e non Cartagine, così la sorte dei vinti doveva colpire soprattutto lui.


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Storia di Roma
3. Dall'unione d'Italia fino alla sottomissione di Cartagine
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma
1938 pagine 371

   





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