Senza elmo e senza corazza, il canuto generale dei Romani, percorrendo le file, ordinò egli stesso i suoi soldati. Erano appena pronti, che la terribile falange si precipitò contro di essi; il duce stesso, che pure aveva assistito a parecchi scontri, confessò, in seguito, che a quell'urto aveva tremato.
L'avanguardia dei Romani fu dispersa; fu rovesciata e quasi distrutta una coorte di Peligni; le legioni stesse retrocessero in fretta sino ad una collina vicinissima al campo. Qui la fortuna cambiò.
Il terreno disuguale e la foga dell'inseguimento avevano allentati i ranghi della falange; i Romani, suddivisi in coorti, penetrarono fra uno spazio e l'altro di essa, assalirono il nemico di fianco ed alle spalle, e siccome la cavalleria macedone, che sola avrebbe ancora potuto recare qualche aiuto, stette, sulle prime, inerte spettatrice di quanto avveniva, e poi prese in massa la fuga con a capo il re, così in meno di un'ora le sorti della Macedonia furono decise. I tremila uomini scelti della falange si lasciarono tagliare a pezzi fino all'ultimo, quasi che la falange, che qui combattè la sua ultima grande battaglia, volesse trovare presso Pidna la sua sepoltura.
La sconfitta fu terribile: 20.000 Macedoni caddero sul campo di battaglia, 11.000 furono fatti prigionieri. La guerra era finita quindici giorni dopo che Paolo aveva assunto il comando supremo; in due giorni si sottomise tutta la Macedonia.
Il re, seguìto da pochi fedeli, fuggì in Samotracia col suo tesoro, che contava ancora 6000 talenti (circa L. 38 milioni). Senonchè, avendo egli ucciso persino uno dei pochi che l'accompagnavano, certo Evandro da Creta, il quale, come promotore dell'attentato contro Eumene, doveva scolparsene innanzi a Roma, lo abbandonarono anche i paggi e gli ultimi compagni.
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Storia di Roma
4. Dalla sottomissione di Cartagine a quella della Grecia
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma 1938
pagine 343 |
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