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      E non solo, come abbiamo già detto, si trascurava tacitamente la riscossione dell'imposta fondiaria dei terreni demaniali occupati, ma si tollerava che si occupasse il suolo del comune, dentro la capitale ed altrove, ad uso di private istituzioni, che si deviasse l'acqua dai pubblici acquedotti a scopi privati, e sorgevano gravi malumori se un censore procedeva seriamente contro i contravventori e li obbligava o a rinunciare ai frutti dell'usurpata proprietà comunale o a corrispondere la tassa legalmente stabilita per l'occupazione del suolo e per l'uso dell'acqua.
      La coscienza economica dei Romani, in altri tempi così scrupolosa, si dimostrava molto rilassata quando si trattava dei beni comunali.
      Catone diceva «chi ruba ad un cittadino termina i suoi giorni nei ceppi, chi ruba al comune li termina in mezzo all'oro e alla porpora».
      Se malgrado il fatto, che l'erario fosse impunemente e sfacciatamente saccheggiato dagli impiegati e dagli speculatori, Polibio asserisce, che in Roma la frode era tuttavia rara in confronto della Grecia, dove non s'incontrava facilmente un impiegato che non s'imbrattasse le mani col pubblico denaro; e se un commissario od un magistrato romano amministrava lealmente immense somme di danaro sulla sua semplice parola d'onore, mentre in Grecia occorrevano dieci lettere suggellate e venti testimoni per la minima somma, e ciò non pertanto l'inganno era all'ordine del giorno, ciò prova, che la demoralizzazione sociale ed economica aveva raggiunto in Grecia un grado molto maggiore che non in Roma, dove specialmente la malversazione delle casse pubbliche non era arrivata al punto cui era giunta in Grecia.


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Storia di Roma
4. Dalla sottomissione di Cartagine a quella della Grecia
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma
1938 pagine 343

   





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