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      Nell'andamento naturale delle cose era quindi necessario che il grano d'oltremare affluisse nella penisola e facesse ribassare il prezzo del grano indigeno.
      Nello sconvolgimento prodotto dal deplorevole sistema economico degli schiavi, sarebbe forse stata giustificabile l'imposizione di un dazio di protezione sul grano d'oltremare a favore di quello italico, ma pare avvenisse piuttosto il contrario e che, col pretesto di favorire l'importazione del grano oltremarino in Italia, sia stato messo in pratica nelle province un sistema proibitivo; poichè, se ai Romani fu concesso soltanto per particolare favore il prelevamento di una quantità di grano dalla Sicilia, ragion vuole, che l'esportazione delle granaglie dalle provincie sia stata libera soltanto per l'Italia, e che quindi ci sia stato un monopolio del grano d'oltremare per la madre patria.
      Gli effetti di questo sistema sono evidenti. Un'annata di una straordinaria fertilità, come lo fu il 504=250, in cui nella capitale sei moggi romani (circa 54 litri) di spelta non costavano più di 3/5 di denaro (50 cent.) e si avevano allo stesso prezzo 180 libbre romane (circa 61 chilog.) di fichi secchi, 60 libbre d'olio (circa 20 chilog.), 72 libbre di carne (circa 24 chilog.) e 6 conci di vino (circa 19 litri e 1/2), non si deve certamente prendere per norma appunto per la sua eccezionalità; ma vi sono altri fatti che parlano più chiaramente.
      Già fin dai tempi di Catone la Sicilia era chiamata il granaio di Roma. Negli anni di grande fertilità si vendeva il grano siciliano e sardo nei porti di mare italici per il costo del trasporto.


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Storia di Roma
4. Dalla sottomissione di Cartagine a quella della Grecia
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma
1938 pagine 343

   





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