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      Euripide è uno di quei poeti, che elevano bensì la poesia a un più alto grado, ma in questo progresso dimostrano assai più di avere il giusto senso di ciò che l'arte dovrebbe essere, che la forza di crearla poeticamente.
      La profonda sentenza che, moralmente e poeticamente, esprime il criterio supremo di tutta l'arte tragica, cioè, che l'azione è passione, vale certamente anche per la tragedia antica; essa presenta l'uomo in azione, ma non mira a ritrarlo nella sua individualità.
      L'insuperata grandiosità, con la quale nei drammi di Eschilo si compie la lotta dell'uomo col destino, nasce sostanzialmente da ciò, che le due forze in contrasto vengono concepite e rappresentate come fatti generali; quello che v'è di speciale nella natura umana, nel Prometeo e nell'Agamennone, è appena colorito con un leggero soffio di individualizzazione poetica.
      Ma nella sua maniera, che si propone di rappresentare l'uomo qual'è, si ravvisa un processo logico, ed in un certo senso più storico che poetico.
      Egli ha potuto distruggere la tragedia antica, ma non creare la moderna. Dappertutto egli si fermò a mezza strada.
      Le maschere, con le quali le espressioni della vita spirituale passano dal particolare al generale, sono, per la tragedia tipica dell'antichità, tanto necessarie, quanto incompatibili riuscirebbero con la tragedia di carattere; ma Euripide le conservò.
      Con meravigliosa intuizione, l'antica tragedia evitò sempre di presentare l'elemento puro drammatico, che non poteva lasciar agire liberamente, ma lo tenne, in certo modo, costantemente avvinto con la materia epica del mondo sovrumano degli dei e degli eroi, e per mezzo dei cori lirici.


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Storia di Roma
4. Dalla sottomissione di Cartagine a quella della Grecia
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma
1938 pagine 343

   





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