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      Da questo punto di vista la stessa imperfezione della poesia romana, che non si può negare, si deve però spiegare e così in qualche modo giustificare: vi si scorge una sproporzione tra il contenuto, sovente frivolo e guasto, e la sua forma compiuta, particolarmente se si consideri dal lato della lingua e del metro. Non può approvarsi che la poesia in Roma fosse abbandonata nelle mani dei maestri di scuola e degli stranieri, e che si limitasse a traduzioni e ad imitazioni, ma se la poesia non aveva da far altro che costruire un ponte per passare dal Lazio nell'Ellade, Livio ed Ennio erano certamente chiamati al pontificato poetico in Roma e le traduzioni erano il più semplice mezzo per raggiungere tale scopo.
      È meno bello ancora che la poesia romana scegliesse con predilezione gli originali più prolissi e più triviali, ma d'altra parte anche questo era in relazione allo scopo. Nessuno vorrà porre la poesia d'Euripide accanto a quella d'Omero; ma considerati storicamente Euripide e Menandro sono tanto l'uno che l'altro gli oracoli dell'ellenismo cosmopolita come l'Iliade e l'Odissea sono le ispirazioni dell'ellenismo nazionale, e in quanto a ciò i rappresentanti della nuova scuola avevano una buona ragione di far conoscere al loro pubblico prima di tutto questo ciclo di letteratura.
      Il sentimento istintivo della loro limitata forza poetica può aver contribuito a decidere gli scrittori romani a tenersi di preferenza ad Euripide ed a Menandro, ed a lasciare da un lato Sofocle e persino Aristofane, poichè mentre la poesia di questi ultimi è essenzialmente nazionale e difficile a trapiantarsi in diverso terreno, la materia e lo spirito delle opere di Euripide e di Menandro hanno carattere cosmopolita.


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Storia di Roma
4. Dalla sottomissione di Cartagine a quella della Grecia
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma
1938 pagine 343

   





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