elth'entünamèn ama d'amphìpoloi fèron autè
sìton kaì crea pollà keì aìthopa oìnon erüthròn.
(che Pindemonte così tradusse, dopo il verso «Mentr'eravamo al tristo ufficio intenti»:
Circe che d'Ade ci sapea tornati,
s'adornò; e venne in fretta, e con la deavenner d'un passo le serventi ninfe
forza di carni e pan seco recandoe rosso vino, che le vene infiamma),
furono interpretati come segue:
tópper cítí aédis - vénimús Circae:
simúl duona córam (?) - pórtant ád návismilia ália in ísdem - ínserínuntur.
(In fretta lesti alla casa - noi veniamo di Circe:
Nel tempo stesso i beni prima di noi - si portano alle navi.
Mille altre cose ancora - furono caricate).
Non desta tanto stupore la barbarie dello stile quanto la sventatezza del traduttore, il quale invece di mandare Circe da Ulisse, manda Ulisse alla casa di Circe. Un altro grossolano quiproquo è la traduzione aithoìoisin èdoka (Odissea, 15, 373) per lusi (FESTUS epit. v. affatim p. 11 Müller). Simili equivoci non sono indifferenti nemmeno dal lato storico; si vede da essi il grado di coltura intellettuale di questi antichissimi maestri di scuola romani facitori di versi, e nello stesso tempo si vede ancora, che Andronico, sebbene nato in Taranto, non poteva considerare il greco come la sua lingua materna.
(58) Non c'è dubbio che un teatro in muratura fu costruito nel circo flaminio pei giuochi apollinari nel 575=179 (LIV. 40, 51; BECKER. Top. p. 605); ma, come sembra, venne subito dopo demolito (TERTULL., De spect. 10).
(59) Nel 599=155 non vi erano seggiole in teatro (RITSCHL, Parerg.
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Storia di Roma
4. Dalla sottomissione di Cartagine a quella della Grecia
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma 1938
pagine 343 |
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