A VIENNA.
Davanti al gran nemico, che anche dopo i rovesci di Russia avrebbe potuto rialzare con un colpo del suo genio guerresco la sua cadente fortuna, i re compresero che per vincerlo dovevano fare assegnamento sopratutto su quei sentimenti di nazionalità e di libertà che il despota universale aveva tanto brutalmente e stolidamente calpestato. E a leggere i loro manifesti di quel tempo, da quello di Kalisch al manifesto di Chatillon, si direbbe che l'anima di Körner, il novello Tirteo, si fosse in essi trasfusa.
Affermavano che «le nazioni d'allora in poi avrebbero rispettato reciprocamente la loro indipendenza»; promettevano che nessuno si sarebbe più innalzato «sulla rovina d'altri Stati una volta liberi» e solennemente dichiaravano che «scopo della guerra, come della pace, non era se non di porre in saldo i diritti, la libertà, l'indipendenza di ciascuna nazione.»
Epperò quando il colosso fu per la seconda volta irremissibilmente atterrato, tutti sperarono che a Vienna, dove i sovrani coalizzati s'erano riuniti a congresso, coi loro ministri, si sarebbe costituito un'assetto definitivo d'Europa, basato sul diritto universale delle genti, e tale che, rispettando i diritti di ciascun popolo, avrebbe assicurato la pace generale per lunga serie d'anni.
Così non fu. Trovatisi arbitri di disporre dei destini d'Europa, i re e gl'imperatori, i quali avevano vinto Napoleone forti del sentimento di avversione, ch'egli calpestando i diritti dei popoli, aveva in tutti suscitato, non pensarono che a copiarlo.
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