Nel breve periodo di sei mesi erano stati tenuti non meno di sessanta banchetti elettorali, ai quali può dirsi che quasi tutta la Francia, nelle persone dei rappresentanti dell'industria, del grande e del piccolo commercio e dell'agricoltura, aveva assistito.
Gli uomini più eminenti nella politica, nelle lettere e nelle scienze, da Arago a Lamartine, da Odilon Barrot a Luigi Blanc - devoti i più alla monarchia del 1830 - vi avevano fatto risuonare vigorosi accenti contro la menzogna del «paese legale» rappresentato da duecento mila elettori, contrapposto al «paese reale», formato da poco meno di trentasei milioni di francesi.
I commenti dei giornali, lo interessamento delle popolazioni nel leggere quei discorsi, tutto doveva dire al ministero e al re che una ulteriore persistenza nel resistere alla tanto reclamata riforma elettorale poteva essere fatale alla monarchia, sulla quale, per giunta, fatti vituperevoli avvenuti negli ultimi mesi, per opera di persone dell'alta aristocrazia e del seguito del re, avevano gettato una triste ombra.
Ma il re Luigi Filippo, che pure aveva ingegno acuto e piuttosto buono il fondo dell'animo, non conosceva la Francia, se non per quel tanto che i ministri e gli uomini di Corte gli esponevano, e per le notizie che ne davano i fogli inglesi, i soli giornali - per confessione di biografi suoi - ch'egli leggesse.
In un colloquio da lui avuto in gennaio con Alexis de Tocqueville, egli, alludendo ai banchetti, aveva detto: «Tutti questi chiassi non mi impediranno di condurre il mio fiacre», tanto egli mostravasi sicuro dell'avvenire.
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