Non v'era Comitato dirigente, ma chiunque gettava nel pubblico un'idea che toccava la fibra del sentimento nazionale, a scopo di riconoscimento e di concordia, era sicuro di vederla subito accolta.
Dominata dal pensiero della libertà e dell'indipendenza della patria, tutta la popolazione agiva come un sol uomo.
Fatta correr la voce di pubbliche preci a suffragio dei caduti nell'insurrezione di Palermo, le molte migliaia di persone accorse alla Chiesa designata non poterono tutte trovarvi posto. Presa la risoluzione di astenersi dal frequentare nel Carnovale il teatro della Scala, preferito dall'ufficialità austriaca, nessuno più vi andò, e l'impresa fu costretta a chiuderlo.
Le lunghe serate di quell'inverno furono occupate in molte famiglie dalle spose, dalle madri e dalle fanciulle a preparare filaccie e coccarde tricolori, dagli uomini a fondere palle e preparare cartuccie.
Parecchi pensarono anche a far introdurre dal Canton Ticino e dal Piemonte fucili da caccia e da guerra, ma molte di queste armi, nascoste in magazzini e in ortaglie fuori porta, non poterono essere adoperate nelle Cinque Giornate.
L'esercito austriaco si trovava perciò come accampato in paese nemico; ciò che non dispiaceva agli ufficiali e ai generali, desiderosi di un'occasione per infiggere una buona lezione a questi indocili milanesi, i quali, dopo trentatrè anni di assoluta quiete, si permettevano di dimostrare velleità d'indipendenza.
Il 18 gennaio il maresciallo Radetsky pubblicava un proclama traboccante di minaccie, in cui parlava della sua «vecchia spada» ancor «salda nella sua mano» e dell'impero affidato alla custodia del suo esercito, come «rupe inconcussa» contro cui si sarebbero rotti «gli sforzi dei nemici come fragile vento.
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