Correnti si affrettò a darne comunicazione agli amici, e a coloro che avevano avuta maggior parte nelle dimostrazioni, nei luoghi dove questi solevano riunirsi la sera.
Che l'occasione fosse straordinariamente propizia, e si dovesse profittarne per un'azione decisiva in pro dell'indipendenza del paese, fu il pensiero di tutti, ma che quell'azione dovesse essere una propria e vera battaglia da dare all'Austria entro le mura della città, pochi si sentirono il coraggio di decidere.
Molti sentirono ripugnanza ad assumere sul loro capo la responsabilità del sangue che si stava per versare. Forse, senza che ne avessero la coscienza, agiva su di loro quello spirito di adattamento e di umanesimo, nemico della violenza, che per lungo tramite di generazioni era penetrato nell'anima del popolo italiano, ed aveva indirizzato la mente di quasi tutti i pensatori italiani; Manzoni e Mazzini, così diversi di mente e di dottrina, avevano ambidue sentito potentemente l'influenza di quello spirito, il primo facendo, colla sua musa, dell'amore universale cristiano un sacerdozio civile, il secondo additando nella fratellanza dei popoli la missione della nuova Italia.
Certo è che i giovani, i quali nelle riunioni storiche della sera del 17 marzo dovevano decidere dell'azione per il domani, non osarono gettare in mezzo al popolo il grido della battaglia.
Il Conte Arese, che fra i notabili dell'alta società soliti a riunirsi al Caffè Cova era tenuto come un oracolo, aveva detto a Cesare Correnti, che gli aveva parlato di rivoluzione pel domani: «Vedrete che alla vista della prima tracolla bianca il popolo fuggirà.»
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