Quelle due uccisioni, e poche altre dello stesso carattere, furono i punti neri della insurrezione delle Cinque Giornate, le quali l'infatuato patriottismo dei suoi apologisti volle tramandare alla storia come atti di valore, ma, se esse spiegano l'esasperazione della truppa austriaca in quei giorni, non giustificano, come vorrebbe l'autore (gen. Schönhals) delle Memorie d'un veterano austriaco, gli atti di inenarrabile ferocia commessi da una parte dei soldati fin dal primo giorno.
Sulla traccia dei primi che avevano ucciso o messi in fuga i soldati di guardia, la folla come torrente che straripa, precipitò nel cortile del palazzo di governo.
I più previdenti corsero alle rimesse, e tratte le carrozze, ne fecero barricate; altri salirono agli Uffici, e, per sfogare la propria avversione alla dominazione austriaca, quante carte e libri e documenti trovarono sui tavoli e negli scaffali gettarono nel cortile. Dopo le carte diedero mano ai quadri, ai mobili.
Durava questo pandemonio, quando arrivò la deputazione municipale, cogli altri notabili cittadini che l'accompagnavano.
Trovato il vice-governatore O'Donnel, fu condotto nella sala del Consiglio dove, circondato dai municipali, riuscite vane le sue resistenze, fu costretto, specialmente da Enrico Cernuschi, a firmare i tre decreti riguardanti l'abolizione della polizia, l'armamento della guardia civica e l'autorità politica rimessa nel Municipio.
Non era finito questo primo atto della rivoluzione, quando arrivò al governo l'arcivescovo Romilli, fino allora popolarissimo, anch'egli fregiato della coccarda tricolore, che qualcuno gli aveva messo sull'abito pastorale; era venuto per unire i suoi buoni uffici a quelli della deputazione per ottenere le chieste concessioni.
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