«Vi hanno per altro tempi e casi solenni, segnati dalla provvidenza, nei quali l'insurrezione non è pure diritto, ma debito».
Le grida entusiastiche non cessarono finchè Manin, portato di nuovo in trionfo fino alla casa sua, si gettò, mezzo morto di fatica e di emozione, nelle braccia della figlia.
Intanto il governo volendo far sgombrare la piazza, dove sempre più crescevano l'affollamento e l'agitazione, mandò compagnie di granatieri e di croati.
Vi furono cariche di questi ultimi, per cui due persone rimasero leggermente ferite.
La mattina del 18, ricominciando l'agitazione, il governatore Palffy, ch'era in fondo un buon uomo, mandò un suo messo a Manin, pregandolo di intromettersi per calmare la popolazione. Manin, anche per consiglio di notabili cittadini ch'erano intorno a lui, rispose che non poteva farsi garante della pubblica tranquillità, se non a queste condizioni: il ritiro delle truppe alle loro caserme e la pronta formazione d'una Guardia civica.
A queste condizioni il governatore non volle arrendersi, perchè, dichiarava, l'istituzione della Guardia civica era cosa di attribuzione del vicerè, e, nonchè far ritirare le truppe, ne mandò un numero maggiore di quelle del giorno innanzi sulla piazza San Marco, dove facevansi sempre più minacciose le patriottiche dimostrazioni.
Visto che tra la folla si dava mano a smovere il selciato della piazza per farne armi contro i soldati, e già cominciavano a volar pietre contro la truppa, a questa fu dato l'ordine, prima di respingere a baionetta il popolo fin sotto le Procuratie, poi di far fuoco.
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