Alla lettura di questi strani documenti, restammo atterriti. I nostri divisamenti andavano di nuovo in fumo. Ancora un giorno e i francesi sarebbero tornati all'attacco. Noi ci preparammo in un triste silenzio a questa novella lotta, sperando sempre in Lesseps, nel Governo e nella nazione francese.
Così Emilio Dandolo nel suo libro. Il "triste silenzio" con cui egli e i suoi compagni si apprestarono alla novella lotta, non impedì che essi nei sanguinosi combattimenti che avvennero ogni giorno fino alla caduta di Roma fossero fra quelle schiere di valorosi i più prodi.
Dando al corpo di spedizione l'ordine di entrare in Roma al più presto possibile, il Governo violava perfidamente la risoluzione precisa e formale dell'Assemblea nazionale, che aveva consentito la spedizione a patto che fosse rispettata e difesa la libertà del popolo romano. Era però destino che in questa impresa della Francia, non ancora di nome, ma di spirito e di tendenze imperialista, tutto avesse l'impronta della slealtà e del gesuitismo. Nella sua lettera al gen. Roselli, Oudinot aveva scritto che avrebbe differito l'assalto fino al lunedì mattina almeno. Lunedì, era il 3 giugno; l'assalto cominciò invece la notte di domenica, 2 giugno. Oudinot credette di poter scrivere nel suo rapporto, che aveva bensì promesso di non attaccare "la piazza di Roma", ma non gli avamposti che la difendevano. - Tale la lealtà del militarismo francese.
Dalle ville Panfili, Corsini (Quattro Venti) e Valentini (il Vascello), poste sopra un altipiano fuori di Porta San Pancrazio, gli avamposti romani dominavano l'ala sinistra del campo francese.
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