Comunicando al barone de Bruck il mandato ricevuto dall'Assemblea, dichiarò ch'era disposto a riprendere le negoziazioni per un trattato conciliabile «coll'onore e la salute di Venezia».
Le trattative durarono più giorni, perchè il ministro austriaco non voleva recedere dalle condizioni poste da Radetzky il 4 maggio, per una «resa, piena, intera ed assoluta».
Oltre i consoli, anche il commodoro di Francia insisteva perchè Venezia capitolasse ad ogni costo, impressionato dei molti proiettili che cadevano in città. Manin gli disse: queste palle che a voi, militare, impongono tanto, servono di trastullo ai nostri ragazzi.
Sapendo che molti ufficiali della guardia civica nutrivano propositi di resistenza a tutta oltranza, Manin convocò il popolo e le legioni della Civica sulla piazza San Marco.
Egli parlò dal balcone del palazzo ducale, in mezzo al più profondo silenzio, con accento che tradiva l'interna commozione. Disse che un sol giorno di viltà e di disordine avrebbe cancellato tutta la gloria della lunga resistenza passata. Vi fu un momento in cui nelle sue parole il cittadino e uomo di Stato parve trasfigurato in profeta.
Un popolo (disse) che ha fatto e che soffrì quanto voi faceste e soffriste non può perire. L'avvenire gli riserva una ricompensa. Quando mai sorgerà il desiato giorno? Dio lo sa! A noi basti averlo meritato! Noi abbiamo seminato, e la semente, siatene certi, produrrà la messe; se non per noi, almeno pei nostri discendenti.
Rivolgendosi poi alla milizia cittadina, la scongiurò a perseverare nel mantenimento dell'ordine e della disciplina, ch'era stata fino allora «la sua forza e la sua gloria». Non dissimulò che grandi sventure sovrastavano su Venezia.
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