E la necessità di un Governo indusse sovente i popoli ad assogettarsi pur all'impero di chi, per arrivarvi, aveva commesso i maggiori delitti.
Così fu aperta la via agli usurpatori del sommo potere, che fu preda sovente di delinquenti fortunati.
Allora la viltà, mettendosi a servizio del delitto trionfante, creò la dottrina che fa della forza la creatrice del diritto, che dichiara la politica indipendente dalla morale e vede nella vittoria, comunque ottenuta, la legittima dispensatrice della potenza e della gloria.
La rivoluzione francese credette avere distrutta questa iniqua dottrina, e precluso per sempre la via, almeno in Francia, agli usurpatori della suprema autorità dello Stato, rivendicando alla nazione la sua sovranità, esercitantesi a mezzo di rappresentanti temporanei, salvi i diritti spettanti alla personalità umana, affermati nella famosa "Dichiarazione".
Disgraziatamente la rivoluzione errò nell'applicazione dei suoi principii, perchè avendo voluto ognuno dei suoi rappresentanti, che aveva idee proprie intorno al governo e ai suoi fini, farle trionfare colla forza, spianò la via a Napoleone, il quale, divenuto idolo del popolo francese, da lui ubbriacato coi fumi della gloria militare, volle essere arbitro supremo, imperatore e fondatore di una nuova dinastia.
Egli cadde come un superbo titano, atterrato dall'immenso suo orgoglio e dalle sue follie, ma quando, pochi anni dopo la sua caduta, il culto del suo nome risorse in Francia, anche per colpa di uomini liberali, il di lui nipote Luigi Napoleone, con scritti che avevano l'aria di bandire il vangelo napoleonico, e con due attentati armati, si annunciò continuatore del sistema politico dell'«uom fatale.
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