Vogliate dunque farmi l'onore d'ammettermi nelle vostre file, e dirmi quando dobbiamo fare qualche cosa".
Costituita regolarmente la Società Nazionale Italiana, Garibaldi ne fu eletto vice-presidente.
Chiamato, sulla fine di dicembre, a segreto abboccamento con Cavour, che gli confidò la prossimità della guerra all'Austria, coll'aiuto della Francia, e la necessità che vi concorressero tutte le forze popolari possibili, Garibaldi se ne tornò a Genova, indi a Caprera, pieno di ardore e di fede nel Piemonte, nel re e in Cavour.
La "dittatura al re" durante la guerra e "non movimenti intempestivi", furono le raccomandazioni vivissime da lui fatte a voce e in iscritto agli amici di Genova, di Toscana e di Lombardia.
Dolenti di vedere così tolto alla rivoluzione il suo capo naturale, i mazziniani cominciarono a tempestare Garibaldi di sarcasmi e di accuse, a cui accennando, Garibaldi così scriveva al La Farina: «Io sono sì corroborato nello spirito del sacro programma che ci siamo proposti, da non temere crollo, e non retrocedere nè davanti ad uomini, nè davanti a considerazioni".
Ma siffatta sua fede doveva poco dopo, prima che la guerra scoppiasse, essere messa a ben dure prove.
Alla fine di febbraio erano già centinaia e migliaia i volontari emigrati in Piemonte per arruolarsi nelle schiere di Garibaldi, ma i corpi da affidarsi al di lui comando, di cui da molto tempo si parlava, non vedendosi mai istituiti, quasi tutti dovettero arruolarsi nell'esercito regolare.
Garibaldi, venuto una seconda volta a Torino, ebbe da Vittorio Emanuele la promessa che i corpi volontari ch'egli doveva comandare, si sarebbero subito formati.
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