La guerra all'Austria, veduta nella sua realtà, gli appariva ora ben più ardua e tremenda di quel ch'egli aveva immaginato a Plombières e a Parigi.
Si trovava davanti a quel quadrilatero, appoggiata al quale l'Austria aveva potuto, nel 1848, restaurare le sorti del suo esercito, allora quasi disperate, mentre all'indomani di Solferino erano ancora formidabili.
Nè la Francia gli aveva dato i 200,000 uomini, nè il Piemonte i 100,000, sui quali aveva calcolato, onde si era trovato a Solferino in forze inferiori a quelle degli austriaci.
Non era contento dei suoi generali, e neppure forse di sè stesso.
Aveva veduto che a Solferino, come a Magenta, la vittoria era stata ottenuta, a differenza di quelle riportate in tante battaglie dal primo Napoleone, non pel piano strategico, ma pel valore eroico e personale spiegato nella mischia da soldati, ufficiali e generali.
Egli aveva veduto il numero immenso di vittime ch'era costata quella battaglia, aveva udito le grida strazianti dei feriti e dei morenti, e forse più d'una volta aveva chiesto a sè stesso s'egli aveva il diritto di far uccidere altre migliaia d'uomini, senza neppure la certezza nè della vittoria definitiva, nè del profitto che ne avrebbe ricavato la Francia.
«Benchè intrepido nel pericolo», sono parole d'uno scrittore francese amico dell'Italia, «egli aveva l'animo d'un filosofo più che quello d'un soldato; e la vista dell'orribile carneficina di Solferino e San Martino l'aveva profondamente commosso».27
Nello stesso tempo egli vedeva compromesso tutto il disegno politico pel quale aveva intrapreso la guerra, dal movimento sempre spiccatamente unitario dell'Italia Centrale.
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