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«Quando il conte ricomparve sulla piazza, la sua commozione non era punto cessata. Io non dimenticherò giammai quella scena straziante. Addossato alla muraglia di una meschina farmacia, Cavour scambiava vivaci parole col conte Nigra, ministro della real casa, e col suo segretario. Esclamazioni di sdegno prorompevano a scatti dalle sue labbra frementi, e lampi di collera passavano ad ogni tratto sul suo volto abbronzato dal sole. Spettacolo singolare e terribile».28
Tanta irritazione in Cavour era naturalissima. Al dolore che doveva sentire come tutti i patriotti italiani, per l'offesa fatta ai diritti e alla dignità dell'Italia, essendosi disposto dai due imperatori delle sue sorti senza consultarla, egli aveva anche veduto nella pace di Villafranca un colpo fortissimo, forse irreparabile, portato alla sua politica.
Era tutta l'opera, a cui aveva lavorato dì e notte da cinque anni, ponendovi tutte le risorse della sua mente agile e forte, facendo seguire, quando le circostanze lo suggerivano, ai consigli della massima prudenza, le più ardite risoluzioni, che veniva colpita, forse annientata, proprio nel momento in cui egli la credeva più vicina al trionfo.
Sentendo di non aver più l'autorità necessaria a reggere lo Stato in una situazione troppo diversa da quella a cui mirava la sua politica, Cavour diede le dimissioni da presidente del Consiglio e da ministro.
Il re affidò la presidenza del nuovo Ministero al generale Lamarmora, il quale diede ad un altro generale, il Dabormida, il Ministero degli esteri, e al Rattazzi quello dell'interno, valente artigliere il primo, abile parlamentare il secondo, ambidue buoni patriotti, ma mediocrissimi, al pari del loro capo, come uomini di Stato.
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