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      È dessa la vera meretrice che da ogni suo amante vuol essere beneficata e gli si dà senza passione alcuna. Lo dice Parmenone fin dall'atto primo (scena seconda):
     
      Neque Tu uno eras contenta neque solus dedit
      Nam hic quoque bonam magnamque partem ad Te attulit.
     
      Adunque i doni fatti a colei debbono essere sempre di alto valore; e la parola «ingentes» tradotta da Dante in «meravigliose» è quella con cui si apre l'atto terzo. Il soldato donatore della schiava chiede al suo messo:
     
      Magnas vero agere gratias Thais mihi?
     
      e l'altro per adulare chi lo mantiene a rispondere «ingentes» ed a soggiungere:
     
      . . . . . Non tam ipso quidemDono quam abs Te datum esse;
     
      «non tanto pel dono in sè ti è grata quanto dall'essergli il dono pervenuto da te» ciò che costituisce l'adulazione tipica. Perciò è Gnatone che avrebbe figurato con più ragione nella bolgia quale adulatore se propriamente il Poeta avesse voluto punire soltanto il peccato di adulazione.
      Adunque Taide è forse nel Poema dell'Alighieri un personaggio sbagliato: lo ammetto io pure ma che importa? L'arte sublima ogni cosa e qui esiste tal forza plastica di presentazione del personaggio che per quanto breve sia la sua apparizione esso rimane impresso in noi come una delle figure più realistiche che mai genio poetico abbia descritto. Chi mai ha detto più e meglio di quanto Dante ci esprima in quei pochi versi? Ogni parola è una sintesi di aspetti di atteggiamenti di espressioni a contenuto psicologico; vi è del Michelangiolesco in quel «Ed or s'accoscia ed or è in piedi stante». Non sembra di vedere tutta la putredine morale del meretricio tanto quegli atti sono un simbolico richiamo alla oscenità della professione così che il corpo ora abbassato e ripiegato sui ginocchi in atteggiamento lurido ed ora in posizione eretta ad impudico spettacolo dei passanti mette a nudo tutta la miseria morale di quella mala femmina «sozza e scapigliata»?


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Sessualità umana
di Enrico Morselli
Editore F.lli Bocca Torino
1931 pagine 209

   





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