Per fortuna la coscienza della grandissima maggioranza dei morenti è semispenta; e tutto quel corteo di gesti, affannosità, atti disperati che fanno dell’agonia e della morte uno spettacolo così orrendo, deve ritenersi l’effetto di un automatismo sub- o anche inconscio di difesa. Ma che cosa dire o pensare se fosse da accogliere, come sembra, la dottrina che quella coscienza vigile che la Psicologia classica investiga e definisce, non altro è se non una frazione minima della coscienza reale che si allargherebbe nel subconscio, anzi nell’ultramarginale in modo ancora indefinito?
Accanto alle morti da esaurimento, o da lunga auto-intossicazione dell’organismo, dove forse il penare è ottuso, altre ve ne sono nelle quali la coscienza sembra persistere fino all’estremo. È difficile imaginare che gli spasmi di un tetanico, o di uno stricnizzato, le convulsioni di un idrofobo, le torture di uno schiacciato nelle membra o nella spina dorsale, i sussulti e il brancicar di un anginoso, tutte queste atroci sofferenze non continuino purtroppo sino allo spegnersi della vitalità cosciente. Leggendo gli orrori delle lente agonie inflitte dai selvaggi ai loro nemici, ad es., fra i Pelli-rosse d’America, o la terribilità delle pene sanzionate dalle Leggi di taluni popoli barbari ed anche civili (viene in mente la crocifissione dei Romani, santificata dal giovane sublime di Nazareth), si ha l’idea rabbrividente che il morire a quel modo sia spaventosamente doloroso; forse si giuoca sull’equivoco quando si parla di dolcezza nel momento del trapasso perchè il moribondo è impotente ad esprimersi.
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