Da ricordare, in primo luogo, che nell’India antica, già molto avanti nell’Incivilimento e così impregnata di vitalismo religioso, i malati riconosciuti incurabili venivano condotti sulle rive del Gange, quivi soffocati a mezzo mediante l’introduzione di fango nelle narici, indi gettati nel fiume sacro.
Platone, nel terzo libro della Repubblica, fu il precursore più illustre degli eutanatisti; egli lodava Esculapio di avere proposta la cura delle malattie guaribili, ma gli attribuiva anche la intenzione di abbandonare al loro destino i soggetti radicalmente malsani. Lo Stato, egli diceva, ha bisogno di uomini e di donne robuste, di soldati validi, di madri feconde: è inutile sperperarne le risorse a favore dei deboli, degli infermi, degli inutili e dei dannosi alla propagazione dei migliori. Si è perciò detto che Platone patrocinò il libero suicidio, e anche l’omicidio dei vecchi, deboli e infermi, giacchè alla propaganda per l’autochiria lo portavano i suoi stretti rapporti con le Scuole dei Pitagorici: ma non è esatto. Nel suo IX libro delle Leggi, scriveva "colui essere da condannarsi che si uccide quando nol faccia per decreto della Città, o stretto da qualche intollerabile e inevitabile caso, o vinto dall’ignominia di povera e misera vita". Qui solo può contenersi anche la motivazione dei mali fisici, come pur quella del decadimento per decrepitezza: ma l’accenno più esplicito è quello del suicidio penale.
Epicuro, a sua volta, insegnava che "si dee aver cura che la vita non ci dispiaccia, nè si deve volere abbandonarla, se pure la Natura o qualche insoffribil caso non ci chiami.
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