Non credo che oggidì diverso sarebbe il contegno dei medici e chirurghi militari, che pur veggono le più atroci mutilazioni e assistono agli strazii più orrendi della creatura umana dopo che la nuova, formidabile tecnica delle armi da fuoco, la barbara introduzione dei gaz asfissianti e la esasperante guerra di trincea hanno moltiplicato le occasioni per augurare ai poveri feriti, più che cure spesso inefficaci, la liberazione definitiva dai loro patimenti. Ma, se per praticare o lasciar praticare l’eutanasia fra i civili occorre un mutamento dell’opinione pubblica circa i doveri collettivi di commiserazione e di carità, come vuole lo stesso Binet-Sanglè, più necessaria sarebbe una riforma della Deontologia medica e della Legislazione concernente gli obblighi e diritti della classe sanitaria: ma qui, massime in Europa, siamo lontani ancora dalla méta.
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Le più calorose adesioni al principio eutanatistico ci vengono dal Nord-America, non tanto perchè essa sia il luogo naturale di nascita di tutte le direttive più avanzate e talora sbrigliate del pensiero etico-giuridico, quanto perchè l’eutanasia significherebbe un altro massimo di libertà accordato all’individuo secondo l’idea che della libertà hanno gli Americani.
Nell’ottobre 1903 la "New-York State Medical Association" mise all’ordine del giorno di un suo Congresso il quesito: "Qual’è il dovere del medico di fronte ad un ammalato incurabile?", e discusse sul diritto di accelerarne la morte, specialmente quando si trattasse di un canceroso operato recidivato e cachettico, o di un tubercoloso all’ultimo stadio, di un fratturato nella spina con quadriplegia completa.
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