.. Io, ogni volta che mi persuadeva della necessità e perpetuità del mio stato infelice e che, volgendomi disperatamente e freneticamente per ogni dove, non trovava rimedio possibile, nè speranza nessuna... concepiva un desiderio ardente di vendicarmi sopra me stesso, e colla mia vita, della mia necessaria infelicità inseparabile dall’esistenza mia, e provava una gioia feroce ma somma nell’idea del suicidio
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È vero che il grande Recanatese non mirava a liberarsi tanto dalle sofferenze corporee, dalla insormontabile iperestesia meteorica che lo faceva saggiare e poi aborrire tutti i climi d’Italia, dai suoi perenni patimenti fisici, quanto dalle "orribili malinconie", dai "tormenti" procuratigli dalla sua "strana imaginazione", dalle delusioni che fin dalla giovinezza lo avvilirono, dalla insoddisfatta sete di amore e dalla non raggiunta mai indipendenza economica che lo rendeva schiavo degli altri; insomma, da tutto un complesso di "infelicità" morali, che lo avevan condotto a quella da lui stesso denominata "filosofia disperata". Generalizzando però i termini di "mali" e di "sventure" da Leopardi tanto spesso usati, non si può escludere che nella sua quasi apologia del suicidio, molte volte ricorrente nei suoi scritti e pensieri, non gli sia balenato alla mente il principio, caro agli antichi, dell’eutanasia anche per sfuggire alla malattia deturpante il fisico e perturbante la ragione. Dico agli antichi, chè egli li proclamava "sempre più grandi, magnanimi e forti di noi" di fronte all’"eccesso delle sventure" e alla "considerazione della necessità di esse"; e come tutti i grandi Umanisti del Rinascimento prestava loro un culto fervoroso e convinto.
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