A tale proposito, bisogna ricordare che per due o tre secoli gli Inglesi, "maturamente e con indifferenza e costanza" si suicidavano ragionatamente, così da riescire notissimi suicidofili nel loro "spleen". Sappiamo tutti come infierì in Europa la manìa, talora anche troppo discorsiva, del suicidio dopo la comparsa delle celeberrime opere di Goethe su Wilhelm Meister, di Foscolo su Jacopo Ortis; ma in quel tumulto di passioni ultra-romantiche, la motivazione del dolore fisico, della malattia, si era dileguata: non è ricomparsa che in tempi recentissimi, non sappiam bene se anche negli statuti di quei "Club di suicidi" (per meglio dire, di "suicidofili") che si lesse essersi fondati qua e là, specialmente nei due paesi dalle massime stravaganze, nel Nord-America e in Russia.
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Dopo il morbo che minaccia, più o men davvicino, e arreca la morte, portando con sè quale suo quasi immancabile segno di ammonizione il dolore, ecco l’agonia che la precede di poco, ne annunzia in forma terrifica la imminenza, e a poco a poco precipita la umana creatura nel Nulla o... nel Tutto!
Il pensiero si rivolta istintivamente - e Tommaso Moro, Francesco Bacone e Maurizio Maeterlinck se ne sono resi gli interpreti - all’idea che quei dolori accompagnanti quasi sempre la malattia possano turbare il paziente fino all’ultimo respiro. Purtroppo l’infelicità umana è così fatta, che vi sono casi in cui il malato passa senza pausa di pace dalle sensazioni violente del suo male a quelle supposte non meno atroci dell’agonia.
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