Che ai vecchi tocchi la sorte atroce quassù ricordata in quanto "bocche inutili" per il loro scarso rendimento di lavoro in seno a tribù che debbono ogni giorno lottare contro enormi difficoltà di vita; o che si sanzioni la loro soppressione col pretesto che essi medesimi provano in generale "il peso della vita" e talvolta col suicidio si liberano dalla loro lenta agonia, come ha voluto fare il nostro grande filosofo Roberto Ardigò, la sostanza non è diversa.
Sì, la Morte in molti casi - scriveva elegantemente il Gen. Med. Trombetta - è consolatrice, è benefica, poichè "quando arrivati alla fine del doloroso viaggio, ci abbatteremo su quella fossa dove ci aspetta la quiete eterna, avremo lasciato alle nostre spalle un deserto seminato di cose morte"; sì, poichè la vita "spesso non vale la pena di essere vissuta...". Ma è proprio vero, come poetizzò Elia Metchnikoff, che esista codesto "istinto della morte" che si sveglia negli anni della composta vecchiaja, e può anche nascere precoce quale "sazietà della vita"?
Al vedere come la Umanità in ogni tempo abbia paventata la Morte e riempito l’Oltretomba di tenebre e di terrori, allo scorgere che non vi è quasi uomo decrepito e barbogio che non lotti sino all’estremo per godere la luce del sole, ci sarebbe da dubitarne; solo c’è da sperare che tale istinto, riescendo a formarsi in una Umanità più illuminata, diventi un conforto per chi si incammina cogli anni e fra gli acciacchi verso l’Inevitabile; ma bisognerebbe svegliarlo e coltivarlo, non solo in chi si prepara a morire per scopi vitali della collettività (Patria, Religione, Libertà), ma in ognuno di noi, anche nella calma e fra le preoccupazioni dell’esistenza quotidiana: andremmo allora Usque ad Finem con animo stoico.
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