A questa indeterminatezza dell’elemento "dolore" osservato in altri, contribuisce la diversità delle reazioni individuali.
Sarebbe erroneo giudicare della acutezza di un dolore dalle reazioni emotive del paziente o dalle sue descrizioni; i maggiori patimenti fisici e morali non sono sempre i più esagitanti o i più accascianti: le rivelazioni del dolore sono personalissime, e si possono superare mali atrocissimi in un silenzio stoico, come si può reagire invece freneticamente a lievi sensazioni algiche. La Storia di tutte le fedi ci dice di quale forza d’animo siano capaci i martiri di un dato Ideale; l’Etnologia ci parla dei guerrieri di certe popolazioni barbariche, ad es. dei Pelli-Rosse d’America, che cantano in mezzo alle più efferate torture inflitte dal nemico vincitore; perfino i criminali Cinesi muoiono in silenzio pur venendo sottoposti a pene inenarrabilmente tormentose. All’estremo opposto stanno le iperestesie dei delicati e dei sensitivi. Scriveva giustamente ed elegantemente, come sempre, Paolo Mantegazza: "Vi sono ipocondriaci ed isteriche che hanno provato gli spasimi dell’iscuria e gli strazii del cancro, le cefalee più atroci e l’angoscia della dispnea, la colica epatica e la colica enterica, il granchio e la rachialgia, senza avere alcuna malattia organica nella vescica, nell’utero, nel cervello, nel polmone, nel fegato, nell’intestino, nel midollo spinale" (p. 181). Eppure, tutti questi pazienti sono alla fine guariti; guai, se impietositi dai loro lagni, si fosse eventualmente ceduto alla loro implorazione di morire!
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