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      Se in ogni caso di morte occorre andare guardinghi prima di giudicare che l’individuo è realmente trapassato, se i segni assoluti della morte reale ci mancano tuttora e quelli che si ritengono buoni rimangono pur sempre incerti e relativi, ne consegue che la diagnosi di prossima, sicura morte, è circondata da difficoltà assai più forti di quello che comunemente e troppo facilmente si creda. Io penso con raccapriccio al momento in cui, sanzionato il principio dell’eutanasia, potessi essere invitato a pronunciare la mia sentenza, anche se confortata dal consenso unanime di un Collegio o di un Tribunale medico; da solo, non mi sentirei quasi mai in grado di esprimere un diagnostico netto e infallibile di morte imminente: associato a colleghi, penserei che essi, come me, mancano di un criterio sicuro. E così, forse, mi troverei nel più dei casi costretto a negare la mia firma alla sentenza di "uccisione pietosa". Vorrei insomma adottare in ogni consimile evento il motto che Douté mise in testa ad una sua Dissertazione della Sorbona nel 1682: "Ergo metu quam audaciâ medicus felicior".
      Quei nostri vecchi Colleghi avevano una idea più alta della nostra funzione sociale, sebbene il genio comico di Molière li colpisse coi suoi sarcasmi e con la insuperabile parodia di Sganarello; per essi il medico vero era quello "fisico e morale", secondo la bella frase del Gagliardi, che scriveva a Roma nel 1718. Nell’imminenza della fine di un suo paziente il medico non deve soltanto sentirsi investito dell’ufficio scientifico di combattere il male e di ostacolare l’appressarsi della morte, ma deve mostrarsi anche consapevole della sua umanissima missione di confortatore verso quelli che temono, piangono e si disperano attorno al letto di un moribondo.


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L'uccisione pietosa (L'eutanasia)
In rapporto alla Medicina alla Morale ed all'eugenica
di Enrico Morselli
Editore Bocca Torino
1928 pagine 230

   





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