Ma io parteggio qui la opinione del Grispigni; il soggetto consenziente non rinunzia già alla protezione della propria persona ed esistenza perchè queste siano minacciate: anzi, qualora il chirurgo commettesse nell’operare atto di imperizia o trascuranza, egli è pronto, se soppravvive a quel nocumento, a domandare indennizzo e sanzione contro l’imperito o l’incauto sanitario: e qualora l’operato morisse, son pronti a farlo i suoi parenti od eredi. Quella rinunzia alla propria integrità è rilasciata in vista di una probabile continuazione della vita; e dato pure che il soggetto sappia (per lo più glielo si nasconde) che l’operazione può arrecare la morte anzichè la salvezza, egli si sottopone all’atto colla speranza di scampo, o almeno con la prospettiva di addolcire i proprî mali.
Disporre della propria persona a scopo salutare è lecito, è giuridicamente assiomatico, è umanamente concepibile, è socialmente utile: ma ben altro è il caso di disporre della propria vita, anche se questa è angustiata da mali tormentosi. Converrà in ogni caso cercare di riconvincere il malato che la Medicina non ha certezza di criterî per la inguaribilità delle malattie individualmente considerate; può sbagliare le sue diagnosi, può errare nelle sue prognosi, ma non può mai, pel suo continuo progresso, proclamarsi incapace di curare quei morbi che fin ad un dato momento ha giudicato o giudica irreparabili. Io faccio mie le considerazioni di un dott. G. B., che trattando il nostro tema nel 1913, metteva innanzi l’obbligo del medico di usare del suo ascendente per suggestionare il malato con la speranza della guarigione: soltanto per le agonie ormai dichiarate, egli non escludeva invece l’uso di calmanti che addolciscano il passaggio sopprimendone la coscienza.
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