Il Re, in nel sentire il racconto, s'incuriosì e si volse da sé sincerare co' su' occhi della cosa e mettere a esame i carcerati, e però scese giù in nella prigione. Dice:
- Com'è che vo' sbeffate il solito desinare e in ugni mo' campate bene tavìa? I' lo vo' cognoscere questo miracolo, e se delle bugìe nun me le infilzate, vi 'mprumetto, parola di Re, di perdonarvi.
Viense innanzi a quel discorso il ragazzotto in persona, e nun gli niscose nulla:
- Sappia, Maestà, ch'i' son io che do a tutti i mi' compagni da mangiare e da bere, anco meglio che alla tavola reale. Anzi, se lei vole accettare, io lo 'nvito alla mi' mensa oggi medesimo, e lei dicerto resterà dimolto contento.
- Accetto, - dice il Re.
- I' vo' vedere quel che tu sa' fare e come tu mi tratti.
Subbito il ragazzotto spiegacciò il tovagliolino di filo, e poi comandò forte:
- Su, tovagliolo, apparecchia per ventuno e da Re.
Il tovagliolino ubbidì con gran stupore del Re, che desinò meglio che alla su' propia tavola.
Finito che ebban di mangiare, disse il Re al ragazzotto:
- Me lo venderesti tu il tovagliolino?...
- Perché no, Maestà? - gli arrispose: - ma con de' patti. Che lei mi lassi dormire una notte assieme alla su' figliola, mi' legittima fidanzata.
A questa domanda il Re ci pensò un po' su; ma poi disse:
- L'accordo, ma che tu stia in sulle sponde del letto, a finestre aperte e con delle guardie in cammera: otto ce n'hanno da essere, e di più un lampione sempre acceso. Se ti garba accosì, bene, e insennonnò, sciolti.
- Vadia pure a su' mo', Maestà, - arrispose il ragazzotto, - e doppo il tovagliolino è nel su' possesso.
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Maestà Maestà Maestà
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