Mastro Germano ne aveva accoppati alquanti in tempo di sua gioventù in servizio del castellano di Venchieredo; ma di questa freddura egli pensava che sarebbe toccato al padrone sbrattarsela con Dio, e per sé, fatta la sua confessione pasquale, si sentiva innocente come l'acqua di fontana. Non erano cavilli coi quali tenesse quieti i rimorsi, ma una massima generale che gli aveva armato l'anima d'una triplice corazza contro ogni malinconia. Passato ch'egli era agli stipendi dei castellani di Fratta come capo-sgherri, avea preso su il costume di dir rosari, che era il distintivo principale de' suoi nuovi satelliti, e cosí avea finito di purgarsi del vecchio lievito. Allora poi che i settant'anni sonati gli avevano procacciato la giubilazione colla custodia del portone, e la sopraintendenza delle ore, credeva fermamente che la via da lui battuta fosse proprio quella che conduce al papato. Fra Martino e lui si può credere che non erano sempre della stessa opinione. Il primo nato fatto per fare il Cappa Nera d'un patrizio di Rialto; il secondo educato a tutte le birberie ed i soprusi dei zaffi d'allora; quello cameriere diplomatico d'un giurisdicente incipriato; questi lancia spezzata del piú prepotente castellano della Bassa. E quando fra loro sorgeva qualche disputa se la prendevano con me, e ciascuno voleva togliermi all'avversario vantando maggiori diritti sulla mia persona. Ma piú spesso andavano d'accordo con tacita tolleranza, ed allora godevano in comune dei progressi che vedevano fare alle mie gambette; e accosciati un di qua e un di là sul ponte del castello mi facevano trottolare dalle braccia dell'uno a quelle dell'altro.
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