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      E cosí la tirava innanzi finché la testa mi ciondolava sul petto e allora Martino mi prendeva pel braccio, e passando dal cortile per non attraversar il tinello, mi conduceva su per le scale fino alla porta di Faustina. Lí io entrava tentennando e sfregolandomi gli occhi; e sbottonate le brache, con una squassata era bell'e svestito e pronto a coricarmi, perché né scarpe né panciotto né calze né mutande né pezzuola da collo mi imbrogliarono mai fino all'età di dieci anni; e una giacchetta e un paio di brache di quel mezzolano che tessevano in casa per la servitù componevano, insieme ad una corda per legar la coda, ogni mio arredo personale. Aveva di piú alcune camicie, le quali colla loro sovrabbondanza pagavano ogn'altro difetto, poiché era Monsignore che mi passava le sue quand'erano sdruscite; e nessuno si prendeva la briga di raccorciarmele se non accorciando d'un poco la campana e le maniche. Quanto alla testa, un inverno che gelava molto, credo fossi allora sui sett'anni, mastro Germano me l'aveva guernita con un berrettone di pelo portato da lui fin da quando era bulo a Ramuscello. Quel berrettone mi sarebbe calato fino al mento, se il Piovano non mi avesse già prima d'allora preparato le orecchie a impedirgli di cedere alla forza di gravità. Per di dietro peraltro, ove non aveva orecchie, esso mi cascava fino sul collo, e Martino diceva che con quel coso in capo io gli aveva viso d'una gatta arruffata. Ma egli lo diceva forse per far dispetto a Germano, e io son grato a questo e al suo berrettone; in mercé del quale andai salvo da molte infreddature.


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Le confessioni d'un Italiano
di Ippolito Nievo
Einaudi
1964 pagine 1253

   





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