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      Nessun dottor fisico né chirurgo o flebotomo ha mai avuto lancette piú lunghe e rugginose delle sue. Credo le fossero proprio vere lancie di Unni o di Visigoti disotterrate negli scavi di Concordia; ma egli le adoperava con una perizia singolare; tantoché nella sua lunga carriera non ebbe a stroppiare che il braccio d'un paralitico; e l'unico sconcio che gli intervenisse di frequente era la difficoltà di stagnar il sangue tanto erano larghe le ferite. Se il sangue non si fermava colla polvere di drago egli ricorreva al ripiego di lasciarlo colare, citando in latino un certo assioma tutto suo, che nessun contadino muore svenato. Seneca infatti non era contadino, ma filosofo. Il dottor Sperandio teneva in grandissimo conto l'arte di Ippocrate e di Galeno. Era dovere di riconoscenza: perché, oltre all'esser campato di essa, se n'era avanzato di che comperare una casa ed un poderetto contiguo in Fossalta. Aveva percorso gli studi a Padova, ma nominava con maggior venerazione la Scuola di Salerno e l'Università di Montpellieri; nelle ricette poi si teneva molto ai semplici, massime a quelli che si trovano indigeni nei paludi e lungo le siepi, metodo anticristiano che lo metteva in frequenti discrepanze collo speziale del paese. Ma il dottore era uomo di coscienza e siccome sapeva che lo speziale estraeva dalla flora indigena anche i medicamenti forestieri, cosí sventava la frode colla abbominevole semplicità de' suoi rimedii. In quanto a teorie sociali l'era un tantin egiziano. Mi spiego.


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Le confessioni d'un Italiano
di Ippolito Nievo
Einaudi
1964 pagine 1253

   





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